Il pianista e compositore ferrarese, si racconta in questa intervista parlando anche della sua ultima fatica musicale: “Tactile“, ispirato dalla ricerca di una percezione fisica della dimensione sonora, suonato in trio con il bassista Alessandro Fedrigo e il batterista Luca Colussi. Questo é il suo quarto album da leader ed é stato registrato nel prestigioso studio Artesuono Recording del pluripremiato sound engineer Stefano Amerio.

Musicalmente sei piuttosto crossover, per facilitare la comprensione dei nostri lettori, come definiresti la tua musica, anche se le etichette lasciano il tempo che trovano?

E’ abbastanza difficile autodefinirsi, sicuramente ci metto la parola ‘jazz’ nel senso di un approccio all’esecuzione estemporaneo e creativo, dentro ci sono tante influenze dal mio vissuto che possono essere sembrare apparentemente in contrasto, ma ce le sento tutte. A volte mi hanno dato dell’ “Avant-Garde” ma forse è un po’ eccessivo. Direi “Contemporary Jazz”? Ribadendo che sì, le etichette lasciano il tempo che trovano.

Quanto ritieni sia stata formativa la tua esperienza, nel collettivo El Gallo Rojo? E quanto vale nella tua formazione e nella costruzione del tuo background la collaborazione con l’Adam Rapa Quartet ?

Quando ho registrato “Brian Had a Little Plate” con i musicisti dell’allora nascente El Gallo Rojo approcciavo un mondo musicale per me nuovo per le potenzialità, la libertà e il coraggio che venivano messi in gioco. Dovevo ancora capire e interiorizzare molte cose ma la collaborazione con Danilo, Max, Francesco e Simone che avevano già orizzonti molto più ampi dei miei mi ha aperto la mente ed allargato la visione creativa ed ancora li ringrazio per questa “iniziazione”.

Lavoro con Adam Rapa da tanti anni e la nostra collaborazione ed amicizia ci ha portato a crescere entrambi, abbiamo portato l’un l’altro i nostri vissuti musicali molto diversi fino a trovare un punto d’incontro. Adam viene dalla tradizione americana del Drum Corps, delle brass band, del musical e dell’eccellenza compositiva ed esecutiva, ma ha un grande slancio verso un mondo musicale e improvvisativo più fluido e “sporco”. In tanti anni di collaborazione abbiamo toccato moltissimi territori diversi e quest’ultimo quartetto con Raphael Pannier e Jeremy Bruyère è l’inizio di una sintesi fra lirismo, libertà e precisione compositiva con del grande potenziale che ancora secondo me ha grandissimi margini di crescita, ma già da qualche anno parliamo di andare in studio a registrare.

Ci parli del tuo ultimo album: “Tactile”, appena pubblicato con un nuovo line-up?

L’idea di Tactile è arrivata inaspettata ma con una chiara urgenza da parte di tutti e tre. Mi ero da poco trasferito da Milano a Udine e l’incontro con Luca e Alessandro è stato quasi fortuito. Abbiamo capito immediatamente che c’era del potenziale e le cose si sono susseguite con una fluidità e una rapidità sorprendenti, assolutamente naturali, tanto che ho dovuto darmi una certa disciplina per stare dietro al flusso degli eventi: la composizione dei brani, gli arrangiamenti, la registrazione delle prime demo, l’organizzazione del tour di presentazione in Giappone, editing audio video e così via. Per me è stata una lezione, ho capito che quando c’è il “terreno fertile” per far funzionare le cose poi queste si muovono con le proprie gambe, ad un ritmo che è anche sorprendentemente più veloce di quanto si pensi, che però non richiede nessuno sforzo, solo seguire la corrente rimanendo svegli e attivi. Lo stesso è stato per la collaborazione con Stefano Amerio: sono bastate veramente poche, chiare parole per decidere di lavorare insieme al progetto. Da quando ne abbiamo parlato la prima volta a quando abbiamo avuto il master pronto sono passati davvero pochi mesi.

Luca dell’Anna con Alessandro Fedrigo e Luca Colussi

Dopo una lunga gavetta nel 2013, finalmente il tuo primo lavoro da leader in trio, “Mana”. Che cosa ricordi dei quella esperienza e quanto è stata determinate nella tua evoluzione musicale?

In quel periodo sono successe tante cose che mi hanno fatto crescere, musicalmente e interiormente. È stato un periodo ricco di collaborazioni in tanti ambiti diversi, dalle più mainstream alla fusion, al free jazz. In questo caos organico ho cominciato a intravvedere una mia strada e poi è arrivato un catalizzatore, l’incontro con Israel Varela, una di quelle persone che fanno da “amplificatori spirituali” e fanno crescere le cose e le persone con cui collaborano. Allora mi è semplicemente scattato un clic, qualcosa mi ha detto “si può fare” e sono andato: ho scritto e arrangiato tutto in meno di un mese e realizzato dei provini che ho mandato ad Israel con quello che sarebbe stato esattamente il disco, per filo e per segno. Anche in quel caso non mi è costato quasi nessuno sforzo, ero trainato da un impulso ludico, come se finalmente avessi il progetto di un giocattolino tutto mio a cui lavorare con i musicisti ideali per quel progetto, che Israel e Ivo capivano alla perfezione.

Nel 2015 arriva sul mercato il tuo secondo lavoro “Symbiont”, in cui sei affiancato con Danilo Gallo e Michele Salgarello, che si piazza fra i migliori album del 2015, secondo la rivista “The Jazz Critique Magazine”. Che differenze ci sono rispetto al disco d’esordio?

In realtà Mana e Symbiont sono nati quasi nello stesso periodo, ho fatto uscire Symbiont qualche tempo dopo per questioni pratiche. È tutto cominciato quando Danilo si è trasferito vicino a Milano, più o meno nello stesso periodo in cui ho incontrato Israel. Io e Danilo non suonavamo insieme dai tempi dei Rootless e del Gallo Rojo. Come è successo anche ora con Tactile, ci siamo semplicemente messi in studio a giocare ed abbiamo visto che la cosa funzionava, ho chiamato Michele che non conoscevo di persona ma a istinto mi sembrava la persona giusta per quel trio, per cultura, per i suoi ascolti e il suo approccio, è così stato. Rispetto a Mana è un lavoro più corale, più organico e in un certo senso più estremo. Mentre Mana l’avevo scritto e arrangiato da cima a fondo e avevo un’idea precisa di ogni brano fin dall’inizio, in Symbiont ho cercato di riportare la fluidità e la libertà che avevo conosciuto con Rootless, con Francesco Cusa, con Tan T’Ien, in un progetto che avesse comunque della struttura scritta. Danilo è un musicista dalle spalle larghe, porta “peso”, personalità e coraggio, lo stesso Michele. Per questo progetto mi sono messo loro suoi binari fidandomi della loro esperienza.

Quali sono i cambiamenti rispetto all’album del 2018 “Human See, Human Do”, realizzato con Massimiliano Milesi al sax, Danilo Gallo al contrabbasso ed Alessandro Rossi alla Batteria. Quando incide a tuo avviso il cambiamento di line-up sul mood dei tuoi dischi?

Il quartetto di Human See, Human Do è nato quando sono stato invitato nel 2017 al festival di Kragujevac, in Serbia. In quel periodo non avevo una line-up mia e stavo lavorando solo come comprimario. Ero già molto amico di Alessandro Rossi fin dai tempi di Zancle con Serena Ferrara e del tour in Cina, frequentavo e suonavo già parecchio con Milesi, Boggio Ferraris e i ragazzi della UR Records. La scelta di chiamare questa formazione è stata dettata da una comunanza di riferimenti culturali, di approccio alla musica ma anche da una complicità personale, un’atmosfera di amicizia “da spogliatoio”, c’era energia e voglia di stare insieme che si è cementata durante il viaggio in Serbia. Come mi è già successo molte volte, la comunanza ludica che viene da una condivisione culturale e umana diventa sinergia artistica. Quando il gioco e la complicità nello scherzo poi si traducono in interplay ed energia musicale, allora il gruppo ha un suono ben preciso e un senso che vale la pena di far ascoltare. Una line-up di quattro elementi con l’aggiunta del sax mi consente di avere un suono più pieno e d’impatto, quasi rock, e di spingere ulteriormente sul concetto di “caos organizzato” che caratterizza un po’ tutte le mie cose, dove tutti giocano uno contro l’altro allo stesso gioco, secondo regole larghe ma precise.

La tua è un’attività ventennale, hai fatto molte cose, ma se dovessi spiegare chi è Luca Dell’Anna con quattro aggettivi, quali useresti?

Onnivoro, ricettivo, ostinato, entusiasta – … mi fa un po’ strano, ma forse possono funzionare.

Che differenze stilistiche ci sono nel tuo modo di suonare nel passaggio dal pianoforte all’Hammond?

Io sono cresciuto ascoltando tanta musica anche lontana dal jazz, per me l’Hammond è sia Jimmy Smith che John Lord, sia James Taylor Quartet che Larry Goldings. Non mi definisco un hammondista perché mi sembra di andare a profanare un tempio in cui “quelli veri” custodiscono segreti ai quali non mi sono mai realmente dedicato, finora. Nei trii di Walter Calloni e Francesco Cusa ho imparato a “buttarmi” senza restrizioni e far funzionare il suono in funzione dell’energia del gruppo. Se devo cercare delle differenze ti direi che sicuramente all’hammond emerge la mia anima funk-rock e tendo a spingere più sull’acceleratore. Ma mi rendo conto quello che riesco a tirare fuori dall’Hammond è la punta di un iceberg, fra le cose che spero di riuscire a fare prima o poi, voglio senz’altro andarci più a fondo e diventare più “vero”.

Sei un artista a cui piacciono molto le collaborazioni ed hai una frenetica attività concertistica, in lungo ed in largo per il mondo. Ci racconti il diverso gradimento della tua musica in luoghi con culture cosi distanti come il Giappone, la Danimarca, il Paesi dell’Est, il Portogallo. Non tutti, immagino, reagiscono alla stessa maniera, per quanto la musica sia un linguaggio universale.

Secondo me ancora una volta la chiave è l’aspetto ludico, il divertimento. Il motivo per cui mi sento fortunato nel fare il musicista è proprio il poter giocare, condividere, “battibeccare” sul palco insieme agli altri musicisti e farlo percepire al pubblico. Quando questa cosa passa e viene trasmessa allora il pubblico diventa parte dello scambio e si crea veramente “qualcosa”. L’ho visto succedere a tutte le latitudini, indipendentemente da quanto fosse culturalmente diverso l’approccio all’evento-musica in quanto istituzione culturale, da trattare in principio con più o meno deferenza: ti lascio immaginare la differenza di approccio iniziale del pubblico giapponese da quello spagnolo, o etiope. La cosa che poi ti ripaga è vedere quando queste differenze si sciolgono e la musica rivela il suo aspetto di linguaggio giocoso, davvero universale.

Ti poni con un approccio differente quando ti dedichi alle stesura dei tuoi dischi di studio, rispetto alla composizione delle colonne sonore?

Mi rendo conto che spesso ho un approccio differente, anche se in un certo senso non dovrei. Mi spiego meglio: secondo me la musica che funziona dipinge sempre una scena. La musica che funziona meglio è quella che ha potenziale pittorico, narrativo, evocativo. In questo senso per lavorare alle colonne sonore mi metto in uno stato più “puro”, completamente al servizio dell’immagine e della storia, usando armonia, melodia e trucchetti tecnici come strumenti per veicolare un messaggio pittorico. Dovrei mantenere questo atteggiamento nel comporre ogni tipo di musica, anche quella dei miei dischi in studio, ma a volte l’intellettualismo astratto rischia di prendere il sopravvento. Ma ci sto lavorando e penso di essermici avvicinato con Tactile più che in passato.

In conclusione, dopo tutte queste collaborazioni internazionali, quanto rimane in te di “italiano”, ti definiresti un artista musicalmente cosmopolita?

Decisamente sì, anzi penso di vivere un certo distacco dalle mie radici musicali che noi italiani soffriamo forse più di altri. Forse perché siamo cosmopoliti nell’animo o forse perché abbiamo tante tradizioni diverse e non siamo un “popolo” solo. Ma penso al rapporto stretto e tuttora vivo che hanno per esempio gli argentini con la loro musica tradizionale, o gli etiopi. Parlo di giovani, di scene musicali tuttora vibranti e attive che portano avanti tradizioni musicali vive da secoli. Però questo dal mio punto di vista è anche un vantaggio: da sempre ho consumato e goduto di linguaggi musicali enormemente diversi fra di loro e mi sono entusiasmato ugualmente per tutti. Se poi qualcosa di spiccatamente italiano si sente nel mio pianismo o nella mia musica, forse me lo saprà dire meglio un giapponese. Io sto bene così, equanime ed ugualmente affamato di musiche ed energie diverse. Forse (lo spero) tutto questo si sente nella mia musica.