Anche in questa circostanza l’autore individua piccole crepe su alcuni momenti della storia del bebop, almeno nel metodo d’indagine e nella narrazione di talune vicende, superando le barriere architettoniche dei soliti luoghi comuni e mantenendo fede alla sua visione afro-centrica del jazz. Il jazz nasce da un insieme di metalinguaggi che non costituiscono una lingua, ma un vernacolo.
Nel caso di Sonny Rollins è possibile enucleare una sorta di sottosistema sonoro, tale da essere definito «Sonny Bop». Che si tratti di bop, hard bop, hard-swing, latin-jazz, post-bop, free-bop o funkbop, l’impronta del Colosso è talmente unica da mettere in evidenza uno stile compositivo ed espositivo del tutto personale. Si potrebbe aggiungere che, al netto di ogni evoluzione e di tutte le variabili apportate al suo modulo espressivo, Rollins abbia sempre suonato bop nell’accezione più larga del termine, utilizzando il metodo dell’improvvisazione tematica. Pur considerando la sua lunga discografia, è possibile affermare, senza tema di smentita, che esista un solo Rollins. Le parole del Verrina sono alquanto esaustive: «Tutto ciò nasce dal fatto che il sassofonista di Harlem, nell’arco di mezzo secolo, non abbia mai subito i diktat delle mode o aderito passivamente alle tendenze che si sono succedute nell’ambito del bop, ma ne ha sempre proposto una sua versione, filtrata attraverso un modus operandi caratterizzato da un preciso metodo improvvisativo; più volte ha condensato vari moduli espressivi all’interno dello stesso disco, passando dall’hard bop classico al post bop modale, piuttosto che a forme più aperte di jazz libero, ma sempre sotto il controllo di una sorta di comune denominatore o di uno specifico marchio di fabbrica». Sempre dal racconto del libro si evince che Sonny Rollins è colui che non ha mai voluto subire il predefinito orientamento di questa o quell’etichetta discografica; non si è mai intruppato in formazioni stabili e vincolanti, se non in qualche rara occasione e sempre per un interesse momentaneo.
Le sue pause di riflessione, spesso durate a lungo, sono servite in parte da catarsi rigenerativa, in parte a creare degli spartiacque o delle fratture con il passato, ma soprattutto a mettere in discussione il vissuto precedente. L’autore è molto chiaro in proposito: «Tutta la vita artistica di Rollins è stata impiegata ad alimentare la voce del suo strumento ed a scoprirne costantemente nuove ed inedite possibilità d’impiego. In sintesi, il Colosso non ha cercato di cambiare, strada facendo, la metrica e la sintassi basilare del bop, ma solo di arricchirla con inedite potenzialità inventive ed espressive». Per dirla in soldoni, Rollins ha impiegato tutto il tempo a sua disposizione tentando di suonare meglio e non per rivoluzionare l’estetica ed i codici comunicazionali del jazz moderno. Tutto ciò è stato fortemente appagante sia in termini qualitativi che quantitativi. A differenza di tanti illustri colleghi, la sua voce ed il suo timbro sono sempre gli stessi, se non progressivamente migliorati, sia che si ascolti un disco degli anni ’50, sia che si analizzi un lavoro degli anni 2000. Scandagliando attentamente gli album più significativi della sua lunga discografia, ci si accorge che, di volta in volta, sono mutati solo gli scenari ambientali, politici, sociali, strumentali e tecnologici, ma in realtà colui che suona è sempre lo stesso musicista, quel ventenne che negli anni ’50 era riuscito a trasportare il sassofono tenore sul terreno della definitiva modernità, senza mai recidere il cordone ombelicale con la tradizione. In fondo quell’implume e ardito tenorista di allora, non del tutto dissimile all’anziano e canuto ottantenne che ha continuato ad esibirsi fino ad esaurimento scorte, avrebbe proseguito ancora, se taluni problemi fisici e di salute non fossero intervenuti a fermarlo.
Non è difficile condividere il pensiero del Verrina: «Per motivi di longevità e di durata artistica, Sonny Rollins rappresenta la massima icona del jazz moderno, avendo avuto la fortuna di vivere già al tempo e nel luogo della leggenda, di cui certi personaggi e talune ambientazioni appaiono ammantati da un alone di sacralità e tenuti in vita da una forte carica mitopoietica, per poi passare attraverso la storia del jazz contribuendo a scriverla, fino a giungere alla realtà virtuale della musica parcellizzata e frammentaria nell’era del Web 4.0». In conclusione, questa non è l’ennesima biografia di Sonny Rollins, ma il racconto della vita di uno dei massimi sassofonisti tenori di tutte le epoche, attraverso i suoi dischi più rappresentativi, i quali diventano i capitoli stessi del plot narrativo sostanziandosi come uno spaccato significativo ed una cospicua parte della storia del jazz moderno.