…composizioni che diventano sovente dei veri e propri affreschi immaginifici legati a quei luoghi fitti di misticismo e di musiche basate su un corredo accordale dissonante su cui le melodie sembrano fluttuare creando un’aura di sospensione e di incanto.


Tutti i linguaggi che ruotano intorno ad un’idea di jazz contemporaneo, sempre più spesso onnivoro e omnicomprensivo, provengono dai quattro punti cardinali dello scibile sonoro, dove metalinguaggi, generi, sottogeneri e stilemi di ogni ordine e grado s’incontrano. Talvolta il nucleo gravitazionale di un progetto è l’Africa, ma sempre più spesso, il jazz maculato e zebrato del terzo millennio punta il naso ad Est, verso uno scorcio di Asia, dove voci, rumori, ritmi, brusii, canti, preghiere, codici armonici non trascritti si mescolano producendo un’esalazione mistico-ritmica che risucchia frammenti di jazz, scaglie di rock e scariche di elettronica, in cui antico e moderno, sacro e profano, dritto e rovescio stabiliscono nuove ed inedite regole d’ingaggio. «Bandra West» il recente album in trio di Raffaele Matta, chitarrista di talento e compositore sui generis, si interseca su linee di confine che lambiscono terre lontane muovendo da una natia Sardegna, già di per sé terra di confluenze, verso altre civiltà sonore ed umane. Così India, Vietnam, Giappone e Tailandia diventano il terreno di coltura ideale, in cui Raffaele Matta, accompagnato dal batterista Nicola Vacca e dal bassista Andrea Parodo, innesta i semi di una creatività poligenetica e musicalmente articolata

Pubblicato per l’etichetta siciliana Isulafactory in coproduzione con la Lizard Records di Treviso, l’album, «Bandra West» s’ispira nel titolo ad un quartiere di Mumbai, città familiare ai tre musicisti, nella quale essi si sono spesso esibiti, raccogliendo input, suggestioni e stimoli, per le loro composizioni che diventano sovente dei veri e propri affreschi immaginifici legati a quei luoghi fitti di misticismo e di musiche basate su un corredo accordale dissonante su cui le melodie sembrano fluttuare creando un’aura di sospensione e d’incanto. Ne è una dimostrazione il brano di apertura «Dehli» che si sviluppa ciclicamente, come un ostinato, in cui il ritmo sembra rotolare dando l’idea dell’ampiezza e del caos di megalopoli affollata di gente frettolosa che si muove in maniera quasi cadenzata, mentre la chitarra produce un’immancabile atmosfera a metà tra religiosità e inquietudine.

Il disco si sostanzia attraverso otto composizioni infarcite di elementi emotivi, flash visivi e scorci paesaggistici che diventano un ponte tra la musica tradizionale indiana ed una forma adattiva di jazz contemporaneo. La seconda traccia dell’album «Japan» si basa proprio sui contrasti tra i suoni reconditi di antiche vestigia e l’uso massiccio di un’elettronica che produce nel flusso sonoro una sorta di pedalata assistita che rende il percorso ritmico-armonico privo di attrito. «1012» è solo una sigla, ma questi numeri hanno la loro cabala sonora che si estrinseca in una ballata progressiva, in cui la chitarra sembra emergere dal sottosuolo ed avviarsi in un graduale crescendo: un atto liberatorio sostenuto e firmato in presenza di un notaio da basso e batteria.

L’approccio ritmico, basato su un sistema numerico per costruire dei pattern, consente alla batteria un’improvvisazione svincolata all’interno di una progressione ritmica, assumendo a tratti le caratteristiche di uno strumento di prima linea atto a produrre melodia su una struttura armonica. Tale concezione compositiva ed esecutiva trova ampio riscontro in «Floor Scrubbers», quasi una danza apotropaica dettata da un groove percussivo, ciclico e riciclico, il quale sviluppa una sorta di urban-funk con gli umori tipici di una metropoli orientale. «Hanoi» si distende su tappeto di sonorità più meditative ed elegiache alla medesima stregua di una struggente ballata, in cui la chitarra diventa un perfetto io-narrante. Per contro, «Chiang Mai» evidenzia immediatamente delle variazioni o delle variabili umorali e tematiche proponendo uno modulo espressivo più documentaristico.

Le ultime due tracce dell’album, «The Music Book» e «UAE», sono una specie di ritorno a casa. L’Oriente si avvicina all’Europa, mentre le sonorità diventano più prossime ad un rock post-punk e scarnificato, in cui la chitarra si contorce e si distorce in maniera più decisa, mentre i profumi del sollevante si disperdono lentamente nell’aria, sfumando in altre suggestioni. «Bandra West» del Raffaele Matta Trio è un vero concept progressivo, in cui le singole composizioni sono concatenate sempre dal medesimo mood creativo ed esecutivo, come il lungo piano sequenza di un film che racconta di un suggestivo viaggio tra Oriente e Occidente.

Francesco Cataldo Verrina