Stefano Zenni è uno dei maggiori musicologi italiani e titolare della cattedra di Storia del jazz presso il Conservatorio di Bologna. E’ il direttore della rassegna MetJazz presso la Fondazione Teatro Metastasio di Prato da più di 25 anni e del Torino Jazz Festival. Per questi due eventi ha realizzato numerose produzioni originali, prime assolute ed esclusive con i più grandi artisti internazionali. E’ autore di libri su Louis Armstrong (Satchmo. Oltre il mito del jazz), Herbie Hancock, Charles Mingus, oltre a I segreti del jazz e la vasta Storia del jazz. Una prospettiva globale. E’ anche autore del saggio “Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore”, che ha suscitato un vivace dibattito in ambito musicale. Tiene con successo conferenze divulgative in tutta Italia, tra cui le Lezioni di jazz a Roma. Ha collaborato per molto tempo con Musica Jazz e il Giornale della Musica. Redige le voci jazz per Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani) e del Grove Dictionary of Jazz. E’ stato candidato ai Grammy Awards come autore delle migliori note di copertina. Collabora da oltre 30 anni con Rai Radio3.
In quale veste si trova maggiormente a suo agio: docente, ricercatore, saggista, critico, direttore artistico, o altro?
Io mi trovo più a mio agio quando insegno e quando scrivo, quindi potrei dire come saggista, oppure quando faccio ricerca, che è una cosa che mi piace molto. Ma soprattutto mi trovo bene quando sono in un’aula con gli studenti, quello per me è il nirvana, la condizione ideale.
Parliamo di MetJazz, il Festival compie 30 anni, una ricorrenza importante. Come è cresciuto nel tempo e quali sono i prossimi obiettivi?
MetJazz è cambiato molto in questi anni, ha avuto molte fluttuazioni anche nelle risorse, seguendo gli alti e bassi dell’economia italiana. E’ cambiato nel senso che in 30 anni si affermano nuovi musicisti, gli stili del jazz cambiano e quindi il festival ha seguito anche i cambiamenti musicali che sono avvenuti sulla scena musicale italiana e internazionale. Cambiamenti che tra l’altro noi abbiamo anticipato o colto con un certo tempismo, sia portando per la prima volta in Italia grandi musicisti internazionali, penso a Steve Lehman per esempio. Ma anche con dei giovani musicisti a cui abbiamo sempre dedicato un grande spazio, soprattutto italiani. Per altri aspetti MetJazz non è cambiato e quindi è rimasto fedele ad una concezione di alta qualità della musica, senza compromessi, cercando di presentare al pubblico cose sempre nuove, fresche e di qualità. Tutto questo sempre nel contesto reale dell’evento, cioè di un festival piccolo anche se molto agguerrito.
Quali sono i suoi primi ricordi della musica da bambino?
Sono legati alla radio. Mia madre era una casalinga e l’ascoltava molto, la musica mi è arrivata grazie alla radio e in particolare con un programma che si chiamava Hit Parade, condotto dal grande Lelio Luttazzi, che ascoltavo avidamente quando tornavo da scuola. Era un flusso continuo di musica, ma le prime grandi emozioni sono legate alla scoperta della musica di Burt Bacharah, è stata quella ha darmi la “scossa” elettrica e che mi ha fatto capire che reagivo emotivamente alla musica.

Cosa ne pensa del fatto che da quasi cento anni la musica popolare in Europa (e forse in tutto il mondo) si modella su generi e stili americani e afroamericani?
Da un lato è l’inevitabile conseguenza degli assetti geopolitici successivi alla seconda guerra mondiale, siamo stati invasi, condizionati e plasmati dai gusti americani e d’oltre oceano. Dall’altro lato va anche detto che la musica afroamericana, il jazz, il soul, il R.a B. e il blues stesso, ha conquistato il pubblico di tutto il mondo a prescindere. Questa musica ha qualcosa che riesce a liberare il ritmo e il corpo, ad esprimere l’emozioni in modo completo non solo attraverso l’esecuzione musicale, ma anche attraverso il ballo. Questo le ha permesso di conquistare il pubblico praticamente in tutti i continenti e quindi anche noi siamo stati attratti da questo modo liberatorio di esprimersi.
A suo avviso, quali sono stati i più grandi innovatori nell’ambito della musica jazz?
Come si fa a rispondere a questa domanda, dovrei fare un elenco un po’ accademico dei soliti nomi che tutti conosciamo: da Louis Armstrong, Charlie Parker, Charles Mingus, John Coltrane e venendo a tempi più recenti a John Zorn, Steve Coleman, Anthony Braxton, ma naturalmente è tutto molto parziale. Mentre invece la cosa importante sia il fatto che il jazz continui a rinnovarsi e ad esprimere grandi musicisti.
Quanto è importante per lei l’improvvisazione quale identità costitutiva del jazz?
L’improvvisazione è un elemento fondante e fondamentale del jazz, che l’ha reso così seducente all’orecchie e ai corpi di chi lo ascolta e lo danza. Voglio però ricordare che c’è anche del grande jazz in cui l’improvvisazione può essere del tutto minoritaria o assente. Quindi è sicuramente un elemento costitutivo fondamentale, ma non racchiude il nocciolo essenziale del jazz (un ‘essenza che peraltro non esiste).
Quali sono le differenze tra il Torino Jazz Festival e la rassegna MetJazz di Prato. Ha un suo metodo per organizzare i due eventi o si basa su dei medesimi parametri, ricercando l’originalità della proposta ed un filo conduttore che le lega?
Posso dire che è molto difficile organizzare due festival così differenti, perché hanno budget completamente diversi. Questa situazione implica un continuo aggiustamento mentale per dare un senso ad una programmazione che non sia banalmente la somma di concerti pescati qua e là. Chiaramente in un festival con decine di concerti, come Torino jazz, non può esserci un fil rouge, come invece facciamo spesso a Prato. Quello che posso dire è che le differenze riguardano il fatto che a Torino, disponendo di un budget molto più alto, possiamo invitare musicisti di un certo tipo o di creare produzioni originali che a Prato non è possibile fare. Però tutti e due i festival hanno in comune la ricerca della qualità ed entrambi sono attenti sia alle scene locali sia a quelle internazionali e soprattutto, cosa molto importante, promuovono le collaborazioni con le istituzioni del luogo in cui si svolgono.

Cosa pensa dell’attuale situazione in cui versa la cultura musicale italiana?
Credo che in questo momento ci sia un bel fermento nella cultura italiana, che però non ha un sostegno istituzionale adeguato e mi riferisco non solo ai soldi, ma al fatto che la scuola continui ad ignorare la musica e l’educazione musicale, che è una cosa gravissima. Oltretutto la programmazione musicale è soggetta ad una tale quantità di complicazioni burocratiche ed appesantimenti fiscali, che chi fa operazioni culturali in ambito musicale fa una grande fatica.
Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata… ma esiste ancora l’impegno, anche sociale, nella musica jazz e, più in generale, nella musica odierna, oppure tutto è finalizzato al guadagno e alla visibilità mediatica?
L’impegno che un musicista può mettere nell’impegno sociale può assumere molte forme, ce ne sono molti che sono impegnati privatamente nella loro attività politica senza portarla sul palco, che è una posizione assolutamente legittima. In linea di massima non vedo una grande propensione alla denuncia e all’impegno come è accaduto in passato; questo non vuol dire che gli artisti che non fanno proclami ad alta voce non si impegnino nel privato o che siano devoti esclusivamente alla loro carriera. Non credo che esista questa dicotomia, o sei impegnato o ti dedichi esclusivamente alla professione, ci sono molte sfumature in mezzo.
Ha una sua particolare visione per il futuro: nei prossimi anni dove andrà a parare il jazz? Soprattutto ci sarà ancora spazio per il jazz come abbiamo imparato a conoscerlo, storicamente?
Non ho idea di quello che possa succedere nel futuro. Quello che la storia ci insegna è che il jazz è una musica che cambia continuamente, quindi credo che il jazz continuerà a trasformarsi, dopodiché può darsi che continueremo ad usare la parola jazz per indicare quella musica che si trasforma, oppure useremo altre parole. Ma in tutta sincerità non è una cosa che mi preoccupa più di tanto, mi interessa sapere che i musicisti abbiano idee e siano in grado di esprimerle e manifestarle e il pubblico di apprezzarle.
Secondo lei, ha ancora un senso oggi scrivere libri di musica, nell’accezione più larga del termine, nell’epoca dei social?
Assolutamente sì, è il mio mestiere!!! I libri continuano ad essere da un lato uno stimolo importantissimo alla ricerca: chi scrive un libro deve avere qualcosa da dire (o almeno si spera), e quindi fa un lavoro di ricerca che poi riversa in quel libro. Naturalmente si spera che questo atto di fiducia arrivi e arricchisca il lettore. I libri sono indispensabili, continuano ad esserlo e lo saranno sempre.