“Fiori e Tempeste” è il nuovo album del Danyart New Quartet, il complesso del sassofonista sardo Daniele Ricciu con Simone Sassu al pianoforte, Lorenzo Sabatini al contrabbasso e Antonio Argiolas alla batteria. La copertina dell’album ci mette di fronte a una cupa foto di fiori di cardi selvatici che non promettono nulla di buono (se questi sono i fiori che ci aspettano, chissà le tempeste…).

In verità, se per fiori si possono intendere le limpide linee melodiche del sassofono, l’ascolto si rivela ben più piacevole di un mazzo di cardi. E l’album, che si apre subito con una linea melodica di pregio, è pieno di begli spunti melodici e cantabili (il leader si autodefinisce “cantautore senza parole”).

Il titolo dell’album, la dicotomia tra fiori e tempeste, dovrebbe introdurci alle “atmosfere contrastanti” della musica, al doppio mood che troveremo al suo interno. Anche la dedica è duplice (a Wayne Shorter e Gino Strada) e forse ci aiuta meglio a interpretare l’opera nel suo insieme. Le due virgiliane presenze guida potrebbero essere l’ispirazione per i brani d’arte e i brani politici dell’album (la politica, intesa in senso lato come impegno umanitario, sociale ecc.). Molti artisti, nei più disparati campi dell’arte, vengono tentati da questa sfida: trovare l’equazione tra arte e politica. Si tratta di un’operazione rischiosa perché la politica può riuscire a rendere noiosa anche l’arte. Ma il jazz è noto per essere un genere dove si sono consumate battaglie politiche e sociali con risultati artistici eccellenti. In questo caso la doppia ispirazione non produce un’opera unitaria, arte e politica non si amalgamano benissimo. Si tratta insomma di un album con due anime ben distinte. E la politica in questo caso ispira i brani migliori. Non tanto per chissà quali motivi politici, quanto perché il mood “tempeste” dell’album si trova meglio espresso nei brani d’ispirazione politica come Love Nature e Utopian World Peace.

Il mood “fiori” dell’album si può trovare nei teneri brani dallo svolgimento melodico, quasi ballate da cantautore: lo sbilenco Walzer della sfortuna (bellissimo il dialogo tra batteria, pianoforte e contrabbasso) e la notturna serenata “Dania” (lirico monologo per sassofono). Il brano omonimo è invece, come l’album stesso, combattuto al suo interno tra il mood “fiori” (una prima parte fatta di struttura, melodia e narrazione) e lo sconvolgimento irrazionale centrale del mood “tempeste” (ma più che uno sconvolgimento è una breve digressione da avanguardia atonale). Si tratta di un sound bello e pulito, tecnicamente rifinito e studiato (il complesso esalta le invenzioni melodiche del leader), ma risulta anche essere troppo calcolato. Manca forse quel pathos pazzo, furioso e un po’ sanguigno che mi aspetterei da un lavoro jazz.

Giovanni Baleani