Dal 1999 ad oggi ha inciso oltre 12 dischi a suo nome, dei quali due con Renato Sellani e due con Phil Woods (“Michela Lombardi e Phil Woods sing and play the Phil Woods songbook vol.1 e vol. 2”, Philology, 2010), che l’ha voluta per incidere una raccolta di sue composizioni. Ha firmato un brano con Burt Bacharach. E’ la voce del Nico Gori swing 10tet, col quale ha inciso 4 dischi. In “Live to Tell”, con Riccardo Fassi trio Feat. Don Byron e Steven Bernestein, pubblicato nel 2017, rilegge in chiave jazz le hit di Madonna. I suoi ultimi due lavori, registrati con Piero Frassi, Gabriele Evangelista e Bernard Guerra, sono omaggi alla musica di Sting (“Shape of my Heart – The Music of Sting”, e “When we Dance” – The Music of Sting vol. 2″, del 2021). Nel novembre 2021 é uscito “Pagine Vere”, dell’omonimo trio che la vede insieme a Giovanni Ceccarelli (piano) e Luca Falomi (chitarre). Ha cantato in importanti festival in Italia (come Umbria Jazz), Francia, Germania, Inghilterra, Belgio e Israele (Tel Aviv Opera House).


Partiamo della tua ultima fatica musicale, “Pagine Vere”, un album molto bello, ben fatto, colto e raffinato. Ci spieghi un po’ la genesi di questo lavoro?

Grazie per la domanda perché in realtà non è una fatica solo mia, ma soprattutto di Giovanni Ceccarelli, dato che questo è il suo songbook: i brani dell’album sono tutti i suoi tranne uno, l’ultimo, che è “Barga” di Kenny Wheeler, per il quale scrissi un testo che a Wheeler piacque molto, e che su consiglio di Norma Winstone ho reintitolato “A Distant Call”. Il primo brano, da dove è partito tutto, è quello che adesso si intitola “From Now On” ma che originariamente si intitolava “Canzone Per Ferruccio”, dedicata a Ferruccio Spinetti, il miglior amico di Giovanni. Una sera di novembre nel 2004 andai a sentire Giovanni Roma in un locale dove suonava e gli portai un mio cd masterizzato con il mio provino della sua “Canzone per Ferruccio” con il mio testo in inglese. Lui fu molto felice e rimase molto colpito, così già da allora incominciammo a parlare di fare qualche cosa insieme. Ed ecco che dopo tanti anni ci siamo riusciti, con questo lavoro in cui il trio è stato completato dal chitarrista Luca Falomi e con tanti brani i cui testi non solo miei ma anche di Max De Tomassi, di Ciara Arnette, di Vanessa Van Renterghem (la moglie di Giovanni Ceccarelli, che ha scritto un testo in francese “Pas Après Pas”), del cantautore corso Stéphane Casalta e di André Carvalho, che è il figlio di Dadi Carvalho, storico collaboratore di Caetano Veloso. L’album l’abbiamo registrato nel 2017 a Siena, ma è uscito nel 2021 per la DaVinci Publishing, che è un’etichetta fondata da un italiano, Edmondo Filippini, ma in Giappone.

Sei nata a Viareggio da una famiglia di ristoratori di Camaiore: come ti sei avvicinata alla musica? Per scelta tua o perché sei stata indirizzata o consigliata da qualcuno? O cos’altro?

Devo dire che la musica è stata sempre dentro di me, sin da piccola, quando sentivo mia madre cantare mentre era ai fornelli in cucina. Poi a 14 anni ho iniziato a cantare in una rock’n’roll band, grazie ad un mio amico che avevo conosciuto al mare, in Versilia. Lui era un bassista di Lucca che mi chiamò dapprima a fare la corista, e poi come voce ufficiale della band. Da allora, e per tutto il liceo, ogni sabato c’era l’appuntamento fisso con le prove nella cantina del batterista. Intanto continuavo a studiare e insegnavo canto. Non pensavo di farne una professione, mi sono laureata in filosofia e ho fatto anche un master in teatro, finché a trent’anni, dopo aver fatto un disco pop-rock col nome di Malina ed essermi prodotta il mio primo disco jazz, “Small Day Tomorrow” (Philology), ho capito che questa era la mia strada: e così mi sono iscritta al conservatorio e mi sono dedicata totalmente alla musica.

Michela Lombardi con Giovanni Ceccarelli e Luca Falomi

Un’altra cosa che mi ha colpito di te è la perfetta pronuncia della lingua inglese, che rende i tuoi brani molto “internazionali”. Non è frequente ascoltare un/a cantante italiana con una pronuncia quasi perfetta, come ci sei riuscita?

Nelle nuove generazioni è abbastanza normale parlare un ottimo inglese, per quelli della mia in effetti è abbastanza raro. Nella scuola elementare che io frequentavo, una scuola di campagna vicino alla chiesa, nemmeno le maestre parlavano inglese; ma il caso ha voluto che proprio vicino alla chiesa c’era un posto che era un centro nevralgico per l’arte: nel piccolo borgo di Peralta c’era una vera e propria cittadella artistica fondata dalla scultrice Fiore de Henriquez, un personaggio famosissimo e molto importante della scultura del secolo scorso. Questo luogo era frequentato da artisti di tutto il mondo e per un anno venne lì ad abitare una famiglia inglese, il padre scultore, la madre e due bambini, Dante e Lucy, che ovviamente non parlavano una parola di italiano. Io presi una cotta per Dante e siccome volevo comunicare con lui presi un libro da casa e mi misi a studiare la lingua. I miei genitori, appena videro che ero portata per lo studio della lingua, mi mandarono subito a scuola d’inglese, nel pomeriggio, e nel giro di pochi mesi per me diventò come una seconda lingua.

Insegni al conservatorio, dopo Monopoli sei da poco al Conservatorio di La Spezia. Quanto è importante per un artista, in momenti come questi, avere comunque un lavoro fisso e stabile.

In realtà è stato un ritorno, perché io ho iniziato a insegnare nel 2013 proprio al Conservatorio di La Spezia dove avevo solamente un’allieva, Valentina Ranalli, oggi bravissima cantante jazz. Nel mio caso la vivo molto come una vocazione e con grande gioia, perché a me piace molto trasferire agli altri il mio know-how musicale. Poi certo la pandemia ha creato molti problemi nel nostro settore e anche molti di coloro che primano riusciva a vivere solo di musica, hanno iniziato a dedicare molto tempo all’insegnamento nei conservatori, in scuole parificate oppure online: questo mi ha permesso di frequentare corsi con artisti stranieri che stimo da sempre, come Darmon Meader, Sara Serpa e Jen Shyu. Personalmente, in passato, in certi momenti insegnavo addirittura in tre conservatori contemporaneamente: se da un lato è abbastanza faticoso e impegnativo, dall’altro ti dà anche la possibilità di imparare a tua volta molte cose nuove dagli allievi.

Michela Lombardi

Tornando ai tuoi tanti progetti musicali realizzati, vorrei parlare dei 2 album dedicati a Sting: “Shape Of My Heart – The Music Of Sting” e “When We Dance – The Music Of Sting, vol.2”. Come mai proprio Sting, forse perché ha un genere musicale che va vicino al Jazz?

Direi proprio di sì. Quando Piero Frassi mi disse che aveva a disposizione uno studio e che potevamo registrare un disco nuovo insieme a Gabriele Evangelista e Bernardo Guerra, pensammo all’inizio a James Taylor, di cui avevamo inciso un brano (“Don’t Let Me Be Lonely Tonight”) in un nostro album precedente. Poi abbiamo preferito Sting, perché già cantavo molti suoi brani, compresi molti dei tempi dei Police, e così abbiamo scelto i brani e le abbiamo raccolti nel primo album “Shape Of My Heart”. Al momento di sceglierli però ci siamo resi conto che ovviamente per motivi di spazio avremmo dovuti lasciar fuori molti altri brani a cui eravamo affezionati. E così un paio di anni dopo li abbiamo ripresi e abbiamo fatto il secondo album: ”When We Dance”, dove peraltro ci sono molti tempi funky e r’n’b.

Faccio anche a te una domanda che spesso pongo a chi intervisto. Nei cartelloni dei festival e delle rassegne di Jazz, quasi sempre ci sono gli stessi nomi. Per carità ottimi artisti e musicisti, ma non sarebbe il caso di dare spazio a qualche nome nuovo e giovane, e ce ne sono tanti, per un discorso in prospettiva?

Da un lato ci sono rassegne dove si preferisce andare sul sicuro e c’è l’esigenza di riempire i posti a sedere con nomi conosciuti, di quelli che non deludono mai (o quasi). Dall’altro, tuttavia, ci sono manifestazioni dove viene dato molto spazio alle innovazioni e ai giovani. Forse mancano dei festival in cui possa essere valorizzata quella fascia di mezzo, diciamo quelli intorno ai cinquant’anni, in cui rientrano favolosi musicisti che non sono né l’artista affermatissimo che non smetterà mai di suonare, né il giovane che fa cose sperimentali. Quella fascia, a parer mio, che ha ancora tantissimo da dire, quindi ci dovrebbe essere più attenzione a queste cose. E attenzione merita anche l’equilibrio, nei cartelloni, tra jazzisti e jazziste: le donne da noi fanno ancora fatica ad emergere, mentre negli altri paesi la componente femminile è molto più valorizzata e unita. Per quello che mi riguarda do il mio sostegno a queste tematiche sia del MIDJ, l’Associazione Musicisti Italiani di Jazz, del cui direttivo faccio parte da tempo, sia di Jazzmine Network, l’associazione fondata dalla batterista Cecilia Sanchietti che porta avanti un discorso di equità di genere. Ci sono insomma molte minoranze che meritano molta più attenzione.

Michela Lombardi

Ci sono delle formazioni più grandi dove tu non sei leader ma sei la voce, ce ne puoi parlare?

Sì, ci sono due orchestre vere e proprie che sono il Nico Gori Swing 10tet, fondato nel 2015 dal clarinettista Nico Gori, con il quale collaboro dal 2005, e la Fonterossa Open Orchestra, diretta da Silvia Bolognesi. Per quanto riguarda la Fonterossa Open Orchestra siamo davvero in tanti, ben 35 elementi, di cui cinque nel reparto voce: è un’orchestra con cui abbiamo fatto già un disco (“F.O.O.L.”, del 2020) e con cui suoneremo ancora molto; è riconosciuta dal FUS e questa estate abbiamo fatto molti concerti dedicati al centenario di Mingus. II prossimo concerto con loro sarà l’8 dicembre a Vicenza. Nell’altra formazione invece, il Nico Gori Swing 10et, con la quale abbiamo già registrato molti dischi (compreso il natalizio “The Tentet Is Coming To Town”), io sono l’unica voce femminile, ma ci sono anche due splendide voci maschili, e quest’anno faremo un capodanno particolare, al Teatro Ponchielli di Cremona, con la grande Drusilla Foer, con cui Nico suona insieme e fa spettacoli da sempre.

Quali sono i tuoi progetti attuali e quali saranno quelli futuri?

Sicuramente vorrei continuare a dedicarmi ai concerti con i repertori dei dischi più recenti, ovvero quello su Sting, col Piero Frassi Circles Trio, e “Pagine Vere”, con Giovanni Ceccarelli e Luca Falomi. Ma vorrei anche riprendere a scrivere materiale inedito, sempre molto legato alla melodia, come quello che era presente nei dischi “So April Hearted” (a mio nome) e “From Distant Shores” (con Francesco Lo Castro e Nino Pellegrini), nonché recuperare gli arrangiamenti dei dischi fatti con Renato Sellani e dedicati a Chet Baker e quelli dei due dischi realizzati, sia come vocalist che come autrice, insieme al leggendario Phil Woods, e composti interamente da brani suoi. La collaborazione con Phil Woods è stata la più importante della mia vita, ed è nata proprio per sua iniziativa: aveva bisogno di un testo in italiano, glielo mandai insieme ad un provino a cappella, e lui si innamorò della mia voce insistendo con Paolo Piangiarelli affinché producesse un suo songbook con me come cantante e autrice di alcuni testi. Di questo (e di molto altro) sarò sempre molto grata a Paolo Piangiarelli. Con Riccardo Fassi, poi, col quale, insieme a Luca Pirozzi e Alessandro Marzi abbiamo fatto un disco dedicato a Madonna, dal titolo “Live To Tell” (Dot Time Records, 2017), con ospiti Don Byron e Steven Bernstein, stiamo iniziando a vedere insieme brani suoi, molto complessi e al tempo stesso dal forte groove e con melodie incisive: è stato il professore al Conservatorio di Firenze e da allora abbiamo iniziato a lavorare insieme (anche a teatro, con lo spettacolo di Rosi Giordano “Billie La Frivola”, dedicato a Billie Holiday). Insomma… novità, sì, ma che affondano le radici nelle solide collaborazioni instaurate nel corso di tanti anni di lavoro.